Finalmente le albicocche.
Oh là.

Non il mio frutto preferito (che resterà sempre il fico) ma la medaglia di argento la vincono loro, per quanto mi riguarda; sapete, sono quel genere di cibo del quale non riesco a trovare una misura: me ne dai una, la mangio.
Me ne dai cinque? Le mangio.
Hai la malaugurata idea di darmene una cassetta? No problem, me la mangio!

Come forse avrete letto nei miei frequenti post della pagina, le albicocche io le raccolgo personalmente dalle piante in una bellissima azienza agricola a Montebelluna, dove non si impiegano né diserbanti né fitofarmaci.

Una volta che le albicocche quindi arrivano in quel di Primiero io le lavoro, soprattutto per essiccarle e farne delle gustose fettine che poi “tocio” nel cioccolato (in particolare nel cioccolato al latte).
Mi scuserete però se oggi non parlerò di cioccolato ma lascio pieno spazio a loro, le mie amate albicocche.

L’esterno, legnoso, da fresco racchiude una polpa bianca avvolta da una pellicina marrone

Tagliandole, dunque, qualche giorno fa mi sono ritrovata un bel mucchietto di ossi (scusate, si dice nòccioli, lo so).

Ricordando vagamente mia nonna che li apriva e se li pappava dicendomi che sapevano di mandorla ma che ai bambini non si possono dare (mannaggia), ho provato a romperne uno e… niente si è spappolato; era troppo fresco, si vede. La nonna la sapeva lunga e infatti li lasciava sul davanzale a prendere aria qualche giorno, prima di romperli.

Ora però era diventata una questione di principio, così li ho infilati nell’essiccatore, essendo sprovvista sia di un davanzale sia del clima estivo della Bassa veronese.
Dopo circa dodici ore li ho estratti ed erano completamente secchi e sono facilmente riuscita a ottenere i semi secchi della albicocca, noti anche come…

Armelline

Le mie prime armelline

Storia decadente delle gloriose armelline

Ho scoperto l’acqua calda, direte; e certo che è così.
Le armelline si usano da sempre, in pasticceria: ovunque si usino le mandorle si usano anche le armelline, o meglio si usavano.
Ora vediamo perché.

Un ramo pieno di albicocche che si fanno aspettare.

Esistono moltissime specie arboree della famiglia delle rosacee che producono frutti da noi umani molto apprezzati; per esempio le albicocche, le pesche, le ciliegie e ancora le mele, le pere, le susine e le prugne, le nespole e la mela cotogna… insomma, evviva le rose anche se ai tempi in cui si studiava latino le odiavamo (rosa, rosae, rosae, rosam… aiuto!).

L’albicocco è molto amato nel Veneto, dove viene però chiamato, per l’appunto, armellino (armelìn); pare che il nome derivi dalle origini della pianta, ovvero l’Armenia, importato dalla Repubblica di Venezia e da lì diffuso.
Dico pare perché poi ogni Regione ha giustamente le sue storie ed io per puro campanilismo vi riporto quella dei territori cui appartengo.

Resta un fatto che il nome botanico dell’albicocco è proprio “Prunus Armeniaca”; a darglielo fu il botanico Carl Nilsson Linnaeus, che non si prese però la briga (come del resto sto facendo io) di cercare le fonti e vedere se fossero valide o se a parlare fosse l’orgoglio territoriale veneto (che quindi a quanto pare non è una novità, visto che si parla del ‘700).

Resta un altro fatto, ahimè, che l’albicocco non è per niente originario dell’Armenia, ma della Cina, e che non furono i veneziani a portarlo in Italia, bensì gli arabi, secoli prima della strapotenza dei Dogi.

E niente, io che mi fidavo dei miei conterranei. Che amarezza.

Dovunque abbia avuto origine la pianta e chiunque la abbia portata in Italia, qui a quanto pare sta benissimo.
Ne esistono, chiaramente, tante varietà diverse con le loro peculiarità.
Quelle dalla polpa più soda, quelle più adatte alla marmellata, quelle più asprognole e quelle dolci come il miele… L’unica è mangiarle tutte, credete a me.

Ora torniamo all’argomento principale, cioè le armelline nel senso del seme impiegato nella produzione dolciaria.

Ha un sapore piacevolmente amarognolo, ricorda chiaramente la mandorla ma con un’intensità davvero sorprendente; ecco perché viene aggiunta, in piccola percentuale, alle mandorle quando le si usa per produrre pasta di mandorle, ad esempio, gli amaretti o i macarons, o ancora la frutta martorana.
Questo avviene nelle produzioni artigianali, mentre a livello industriale si tende ad evitarla.
Cosa voglio dire?

Un veleno… buonissimo

Voglio dire che, come tutti i semi della famiglia delle rosacee, anche le armelline contengono una sostanza tossica in quantità significativa.
Si parla del 1%, nel caso dell’armellina da albicocca (del 2,5% nel caso di armellina da pesca), che è più dello 0,6% di quello contenuto nei semi di mela, ben più noti per contenere, appunto, cianuro.

Non contengono, in realtà, il cianuro puro, bensì l’amigdalina, che per idrolisi forma acido cianidrico, il quale a sua volta contiene cianuro.

Se siete amanti di romanzi ambientati nei secoli scorsi, lo avrete incontrato con il nome di acido prussiano.
Oggi grazie alla biochimica sappiamo esattamente cosa sia e come funzioni: il cianuro va a “complessare” (sì, si dice così) i metalli, in particolare per noi è rilevante la sua reazione con il ferro, che come sappiamo è contenuto nel nostro sangue; in seguito a questo legame le cellule non ricevono più ossigeno e… semplicemente muoiono soffocate.
E se muoiono le nostre cellule, moriamo anche noi, capita.

Come per tutte le sostanze tossiche c’è un limite oltre il quale queste diventano letali e sotto il quale, invece, non fanno poi tanti danni e questo limite varia anche in funzione di chi le assume; ecco perché la mia nonna (che credetemi è tutto tranne che una colta chimica) non mi permetteva di mangiarle mentre lei un paio ogni tanto se le concedeva.

Di conseguenza, un marzapane (per fare un esempio) prodotto con mandorle e con una percentuale di armelline (in questo caso si chiamerebbe persipane e non marzapane), è adatto solo ad un pubblico adulto.
Se a proporlo sono io, artigiano, che lo ho fatto e che posso vedere in faccia il mio acquirente, tutto bene, so che non devo proporlo ai bambini (come del resto non gli propongo le mie praline al rum&pera o i boeri).
Se però a produrlo è un’industria di semilavorati, i quali passano poi ai pasticceri che semplicemente lo modellano per creare buonissime paste reali, magari belle colorate e disposte ad altezza-naso-bambino, credo sia chiaro il motivo per cui preferiscono perdere in sapore e avere un prodotto adatto a tutti, ovvero guadagnare in potenziali clienti.
Scelte, come sempre, che vanno nelle due direzioni opposte: qualità o quantità?

Cosa dice la LEGGE, o meglio cosa dice l’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare)? Ecco qui l’articolo.

Riassunto

Se sei adulto non mangiarne più di tre al giorno, se sei bambino evitale.

L’articolo si prodiga a dire che il rischio riguarda solo il seme, non il frutto (e che ciò sia vero è il fatto che io sia ancora viva e vegeta!).

Purtroppo le armelline non sono impiegate solo da noi artigiani “pazzi”, che ci ostiniamo a portare avanti i sapori completi e gastronomicamente interessanti.
Sembra incredibile ma anche qui ci viaggiano sopra quelle persone senza scrupoli -inqualificabili senza entrare nello scurrile- che chiamano scienza ciò che è in realtà pseudo-scienza.
Basta una rapida ricerca per imbattersi in siti che propongono le armelline come valida alternativa a chemioterapici. Ma dico io, non vi vergognate?

Non esistono ad oggi studi scientifici che riportino esiti favorevoli di cura del cancro con sostanze ottenute dal laetrile [nota]Laetrile for cancer: a systematic review of the clinical evidence, Supportive Care in Cancer, June 2007, Volume 15, Issue 6, pp 583-595[/nota]. Punto.

Ma da dove nasce questa voce e è vera?

Se avete ancora energie e voglia, ve lo racconto in breve.

Fu negli anni ‘20 che il dr. Ernst T. Krebs (e non Hans Adolf, premio Nobel) che riuscì a isolare l’amigdalina. Oltre ad impiegarla per aromatizzare, come facciamo tutt’ora, la sperimentò sui ratti riscontrando, così diceva, una buona risposta nella lotta ai tumori, nel ratto, eh. Fu lui stesso d’altronde a dichiarare che non era il caso di sperimentarla sull’uomo, data l’alta imprevedibilità della sostanza.
Il figlio, Ernst jr, però riprese in mano il lavoro del padre, isolando una molecola che chiamò laetrile.
In seguito la rinominò “vitamina B17”, anche se è tutto tranne che una vitamina, solo che considerandola tale si potevano bypassare tutti i test clinici necessari, invece, per commercializzare una sostanza con presunta capacità medicinale.
Oltre a non essere un valido farmaco antitumorale è spesso causa di intossicazione da cianuro (ma guarda un po’).
Forse è meglio lasciar perdere i praticoni e rivolgersi alla medicina che cura sulla base di attendibili evidenze scientifiche, che dite?

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