Che domande, entrambi! 

Facciamo un esperimento.
Pensate a un piatto di spaghetti al pomodoro.
Potete avere in mente il classico piatto fatto in casa, cotto senza tanto pensarci su, un sugo che “uno vale l’altro“, impiattato come capita e con una generosa grattata di un formaggio X.
E mangiate, fine.
Ora pensate a un ristorante fine, dove vi servono un piatto di spaghetti alla chitarra di grano tal de tali, adagiati su letto di pomodoro siccagno IGP, con basilico ligure e scaglie di Piave Stravecchio di malga. Impiattato su ardesia, con guarnizioni di ristretto di un vino Y.

Evidentemente c’è una differenza, tra le due esperienze, e non è data dalle kilocalorie che assumete con quel piatto.

Avete già capito dove voglio arrivare: l’esperienza globale di un atto come il mangiare è troppo complessa per ridurla a un solo senso (il gusto), e certamente non è sinonimo di riempirsi la pancia.
Dire “anche l’occhio vuole la sua parte” è ancora riduttivo: la vuole anche l’orecchio, e il naso, e non dimentichiamo che la lingua non si limita a sentire i sapori ma ha anche una funzione tattile. E poi interviene la temperatura dell’alimento, spesso trascurata nelle analisi organolettiche.

Se questo vale per un piatto di spaghetti, che mangiamo volentieri anche se non è “stellato”, quando si parla di un alimento che non è strettamente necessario per vivere come un dolce (nello specifico, un cioccolatino), quello che sta al contorno è di vitale importanza.

Ecco, immaginate un cremino fatto con le migliori nocciole di Avellino e con un cacao strepitoso del Ghana; a nulla varranno le sue qualità, se è mal tagliato, poveramente presentato e per nulla descritto.


Invece: tagliato a mano per bene, incartato (con cura) in una carta metallica di un colore piacevole, descritto nel dettaglio sulle origini della materia prima, evidenziando il perché siano così speciali, e del metodo con cui lo abbiamo prodotto, presentato in un contenitore che impreziosisce ulteriormente.
Ecco, quale dei due, a sensazione, vi darà maggior piacere?

Per quello che riguarda il cioccolato nel senso stretto, parlo quindi della materia prima “cioccolato”, si apre un ulteriore mondo sulle qualità intrinseche che spesso non trovano posto nelle già sintetiche descrizioni dell’insieme.

Scaglie di cioccolato. Quale cioccolato? Chissà.


Ci si limita talvolta a darne l’origine (es: Venezuela) o la tipologia del cacao (es: Amenolado), senza però dire praticamente nulla al destinatario dell’informazione.

Quando mi si chiede come capire se un cioccolato è buono, mi trovo spesso a fare il parallelo con i vini: nella parola “vino di Toscana” rientra il “Chianti” come il “Vino da tavola dello zio Peppino “, così dire che un cacao è venezuelano non vuol certo dire che si tratta di un cacao strepitoso. E temo che pochi tra gli amanti amatoriali del cioccolato sappiano davvero la differenza tra un Criollo e un Purús… Ma esistiamo noi cioccolatieri apposta, come per i vini esistono i sommelier e per le birre i mastri birrai.

Non abbiate quindi timore a chiedere al vostro cioccolatiere che caratteristiche ha il suo cioccolato.
Se è un cioccolatiere che fa quel mestiere per passione, saprà non solo spiegarvi tutto quello che desiderate sapere, ma probabilmente finirete per appassionarvi e iscrivervi a un corso di cioccolateria!

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